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Il giardino del farò (racconti)

Il giardino del farò (racconti)

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Solo chi presta attenzione alle tue parole finirà per esserci quando non avrai più niente da dire.

 

Perché scrivere un racconto? La domanda essenziale mi venne in mente dopo averne scritti alcuni, nel 2011, a venticinque anni. Scrivere, sin da bambino, come fosse un bisogno primario. Scrivere canzoni, storielle, aforismi, poesie, vignette e altro, solo per sé e per qualche buona amica o amico. Il racconto è venuto dopo, una rivelazione in una nuova forma che permetteva di inglobare tanti elementi, tanti punti apparentemente lontani.

Negli anni il perché ha portato tutte le risposte che mi occorrevano. Pretendevo che i racconti fossero molte cose assieme: un’analisi su ciò che avviene intorno a noi e dentro di noi, partendo da poche tracce sparse lungo un cammino pieno di ostacoli e di bizzarre sorprese. Un’illuminazione improvvisa, una scintilla interiore che chiedeva di ardere su un foglio bianco (o meglio, su uno schermo) è stata la causa di tante storie, quelle più profondamente umane.

A volte, era l’indignazione a muovermi, a trainarmi senza sforzo; quell’indignazione da ragazzi residua che si riesce ad avere, nonostante tutto, a venticinque o a trent’anni.

Togliere la maschera alle cose e alle persone, soprattutto con un sincero ma bonario scherno, è stata una prerogativa, una ragione sociale.

Alcune storie vengono semplicemente da esperienze personali che ho sentito il bisogno di raccontare, di fermare, mistificandole il giusto. Ho giocato molto con i nomi delle persone e dei luoghi, ho disseminato en passant alcune sottili citazioni per rendere omaggio ad un autore, per il gusto di farlo, senza chissà quali reconditi motivi (perlomeno, non sempre).

Ci sono racconti in cui il dialetto era necessario e mi ha regalato innanzitutto momenti di ilarità. Scrivevo e ridevo, in pratica, ricordando certe storielle ascoltate qua e là, certe facce, certe parole. Piccole storie di piccole vite, ma non per questo insignificanti. Storie vere anche quando tutto è falso. O sembra esserlo.

Un aspetto, oserei dire magico, dei racconti, della loro genesi, si rivela nel mentre: la storia mi cambiava, mutandosi, quasi fosse scritta da qualcun altro. La narrazione prendeva strade impervie ed inaspettate e io sono stato umile e pronto nell’assecondarne la volontà. Spesso le cose da dire risultavano essere ben diverse da quelle che volevo dire all’inizio. Lo richiedevano, lo ordinavano. Mi sono sentito come investito di un’autorità temporanea. Un dittatore senza popolo né esercito, senza vittime e avversari, o ideologie alla bisogna. Parole, immaginazione, sconforto, ribellione, dileggio, vita morte miracoli, e altro ancora…

L’augurio migliore che possa rivolgere a chi leggerà è di avere sempre qualcosa da dire. Per il silenzio c’è molto altro tempo, da qualche parte.

 

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