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Gusci di silenzi

Gusci di silenzi

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Come sempre mi succede quando mi cimento nella valutazione di una raccolta poetica, ho bisogno di leggere le singole poesie tre volte. La prima lettura, vuole essere un omaggio all’ «artigianalità della parola»: mi soffermo, cioè, su ogni singolo aggettivo, sulla scelta di un termine piuttosto che di un altro, sugli «a capo» che pretendono considerazione. E in questa fase, quasi emulo della fatica del poeta, ricopio le liriche a matita, di quelle più blande perché più forte dev’essere la pressione sul foglio affinché la grafite lasci il proprio calco.

Nella seconda lettura, alla stregua del rabdomante in cerca della vena d’acqua, inseguo immagini, profumi, sensazioni che solo una poesia che «frequenta l’anima» è in grado di trasmettere a chi la sta leggendo.
Giunto alla terza e ultima lettura, quando e se il «portone» del coinvolgimento emotivo è «malchiuso» al punto giusto, eccole finalmente esplodere «le trombe d’oro della solarità». E allora musica, armonia, suggestione.
Ebbene, solo la poesia che risplende «come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato», è in grado di superare queste tre fasi. Cosa, quest’ultima, che senza dubbio è avvenuta con le liriche di Lio Fiorentino.
Il poeta di San Giovanni Rotondo è il cantore di un Sud intriso di elementi primordiali: nuvole vinate, rondini al galoppo, giallo mattino di sole, silenziosi respiri di notturne resine. 
Nella «foresta di simboli» immillati dal suo linguaggio poetico, l’attenzione del Nostro è rivolta alle corrispondenze apparentemente impossibili, cristalli di cera eterni nella struttura eppur caduchi nella loro essenza.
Il canto di Lio Fiorentino rifugge dagli idioti poeti furiosi di gloria alla ricerca continua, disperata e disperante di una quotidianità semplice. Il poeta, dall’alto del suo sguardo essenziale, intuisce che le corone di alloro, per dirla con Dostoevskij, troppo spesso si trovano ben calcate su teste pidocchiose; nel canto, cioè, di chi, ammantato di spocchia, è incapace di richiamare in vita, perché confinato nell’aridità della condizione adulta, lo stupore infantile al cospetto del mondo. Egli, quindi, si chiama fuori dal «clangor di buccine» che conduce diritto all’esaltazione preconizzata dal Gozzano. E allora, più proficuo perché più vero, è inseguire il vento di scirocco che balla col mistero delle cose, nella consapevolezza che le parole troppo ingombranti sono state allontanate da quello stesso vento intriso d’armonie lontane che all’insulto del tempo resistono.
Per sfuggire alla fiera della falsità, ai litigiosi alterchi di possessi, non resta che passeggiare tra le lucciole gitane, tra gli stagni del nulla: è solo da una prospettiva basica, infatti, solamente inabissandosi nelle profondità dei gusci di silenzi cercati con la stessa tenacia con la quale Montale eternava i suoi ossi di seppia, che il poeta matura riflessioni sul sangue e sulla vita.
Nelle poesie di Lio Fiorentino, però, oltre alle parole (che accarezzano anime tormentate in frazioni di secondi e morbide di assalti d’entusiasmo), vi sono le immagini che scorrono e si rincorrono pregne di significato. È, infatti, l’attitudine alla regia teatrale praticata con successo dal Nostro, a dare dinamicità ai versi, inanellandoli in un flusso «filmico» di emozioni che recitano «a braccio», con l’intento evidente (e riuscito) di sintonizzarsi con i moti dell’anima del lettore-spettatore. Ed ecco, allora, consegnare alle lusinghe del mare i futuri velieri che salpano verso solitudini vaganti e affidare alle cure del giorno che muore i gabbiani al tramonto che trafiggono l’anima di sete stridente.
La poesia di Lio Fiorentino è sì intimistica, ma il suo orizzonte poetico, lungi dall’esaurirsi all’interno dei confini (immensi ma pur sempre finiti) del foro interno, ha bisogno di alterità, dell’elemento relazionale. Magari, dopo aver assecondato quest’esigenza vitale, il poeta rimane insoddisfatto (strade vicine sembrano capirsi ma è solo un’illusione) e riprende la «corrispondenza d’amorosi sensi» con sé stesso, ma non può evitare di provarci. In altri termini, la musicalità del poeta di San Giovanni Rotondo, si nutre di canto e di controcanto, di grave e di acuto traendo, dall’apparente, insanabile contraddizione degli opposti, una sinfonia che nasce dall’animo per l’animo, ma che non può evitare di compromettersi e contaminarsi con la vitalità che zampilla appena al di fuori delle nostre esistenze. Solo così, solamente perseguendo quest’equilibrio tremolante ma terribilmente vivo tra dentro e fuori, tra silenzio e vitalità, tra crepuscolo e meriggio, che Lio Fiorentino potrà allontanare il lettore dalla fosca e truce idea che la nostra storia è tutta un inseguir di male e sommi errori.
E tutto questo, beninteso, sempre lontano dall’omologazione che inaridisce la creatività (Ora dico tre e tutti tre) e dalle visioni semplicistiche (… evidenza che la logica semplice inonda di certezze) che, loro malgrado, ispessiscono il velo di Maya sotto il quale - e il poeta lo intuisce - unicamente si cela la sostanza intima delle cose. Qui, lontano dalla fiera della falsità di cui è intriso il mondo, dove il falso è padrone, dove sono sempre in agguato i finti ami d’illusione, l’unica certezza - «il varco è qui?» - è la poesia dove nulla esiste se non quegli istanti dove vinco sul tempo.
Come si vince? A questo punto, la domanda viene a essere proprio questa. Probabilmente, aggiungiamo noi, si vince proprio opponendo alle nenie sgranate da rosari di speranze dell’usa e getta le terre brulle assetate di pioggia, le pietre che guardano il cielo senza speranza di un domani. Il domani, infatti, è adesso, si materializza nel momento stesso in cui il poeta lo eterna con la sua ars poetica.
Versi che si sostanziano di immagini alla ricerca di un tepore per l’anima infreddolita, questa è la raffinata poesia di Lio Fiorentino.

Vincenzo Benvenuto

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