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Sistoli d’amore

Sistoli d’amore

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Quante notti le tempeste e il dolore del mondo hanno forzato le imposte di quel nido di pace! Ed ogni volta, solo uno sguardo a carezzare il sonno placido dei suoi cari, solo un sospiro prima di correre a fermare lacrime di dolore. Di giorno e di notte, fin nel sacrario delle ore più liete, le pene del mondo lo hanno raggiunto per anni, come un fardello pesante da abbracciare con passione. Ed egli, sordo all’utile personale, infinite volte ha assaporato il pane duro del servizio, per fasciare carni doloranti e cuori in ambascia.

Ma ci stupisce ancora Goffredo De Vecchi! E ci sorprende in un’inattesa veste di poeta, mentre lo circondano una stima ed un affetto unanimi per l’indiscutibile acume clinico, il rigore metodologico, la risolutezza del professionista esperto, le doti morali dell’uomo d’altri tempi, la profonda empatia che è l’humus del vero medico. Attraverso le arcane vie del sentimento, la sua poesia, come in un “flusso di coscienza”, raggiunge il cuore, prima ancora che la mente del lettore, e lo sorprende con vivide sensazioni e precisi stati d’animo. Lo stile fortemente evocativo, in cui la parola pura e semplice è vergata a mo’ di pennellata impressionista, sfuma l’esperienza sensoriale in un ventaglio di suggestioni, che fanno vibrare le corde più profonde del sentimento.

Non pensieri, ma “sistoli d’amore”sono questi versi, fulminei bagliori a snudare un’anima innamorata della vita, di quella vita che Goffredo ha servito con passione e profonda reverenza,  riconoscendola negli affetti più cari, nella “luce di fiaba” di una festa sul mare come nelle piaghe nascoste di una malattia inguaribile, negli occhi assetati di luce di un bimbo felice o di un vecchio morente, nel collasso della coscienza di un tossicodipendente, nello sguardo senza perdono dei sepolti vivi negli ospedali psichiatrici, nel corpo vilipeso dei nuovi schiavi. E quest’amore per la vita, che si radica più tenacemente in chi ha fissato in volto il dolore tante e tante volte, trasuda dai suoi versi come l’effluvio prepotente e ineffabile di quelle piante esotiche che, simili a tutte le altre intorno, rivelano la loro unicità solo se incise da una lama impietosa. Infiniti volti ha il dolore, infiniti accenti, infinite vesti, ma sempre scava nel cuore dell’uomo fosse solo per ricordargli che la sua vita non è che un lampo nell’eterno, che la bellezza del mondo è un nulla, come quel granello che muore scordato, come quel seme che non sarà più grano. A volte la sofferenza ha l’odore acre delle gioie non avute, l’odore di un campo bruciato con cui vanno via in un baleno le speranze di un’annata. E su di essa verrebbe voglia di invocare la nebbia col suo “velo di nulla”, a coprire i giorni in cui la vita, come un capriccioso regista, forza quel superbo “ingegnere della luna”, che è l’uomo, in ruoli a lui non congeniali. Eppure, appena lavata la polvere dalla mente, risorge la voglia di guardare oltre il solco già tracciato, di valicare le nubi dei sogni infranti o del bene perduto per rubare l’azzurro di una promessa d’eterno. Ed è, soprattutto, il pensiero di quel Dio che ricama i nostri giorni con una sapienza che va molto oltre la capacità dell’uomo di intenderne il disegno, a rinverdire le speranze. Ed ecco rose rosse accendersi sul nudo tronco di un albero scosso dal vento!

 

Consuelo Arienzo

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