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Il salto e la beffa

Il salto e la beffa

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Queste poche righe non vogliono essere un saggio, ma una semplice introduzione. A onor del vero Padovano è la dimostrazione che si può essere ottimi scrittori senza per questo far parte del Cannibali (Isabella Santacroce, Aldo Nove, Enrico Brizzi, Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa). È un’artista che non scende a compromessi e non è come molti intellettuali italiani un giullare, che oscilla tra conformismo dell’anticonformismo e narcisismo. Infatti non ha mai seguito le mode letterarie postmoderne: l’opera aperta, l’estetica del vuoto, il cosmopolitismo dilagante. E’ un maestro, che non è mai diventato un apocalittico ne’ un integrato per ricordare la celebre distinzione di Umberto Eco. E’ un saggio, anche se alcune sue tesi di primo acchito potrebbero apparire paradossali. Non ha mai partecipato a un talk-show e non è mai stato mondano. Sa bene che, come scrive Calvino in “Eremita a Parigi” (Mondadori, 1994), la condizione ideale per uno scrittore sia quella “vicina all’anonimato”, perché è allora che “la massima autorità dello scrittore si sviluppa, quando lo scrittore non ha un volto, una presenza, ma il mondo che egli rappresenta occupa tutto il quadro” (pag.194). E’ da un po’ di tempo a questa parte che penso che ci siano autori clandestini o quasi sconosciuti, che meritino più degli autori dei grandi successi editoriali. Intendiamoci: questo è solo un mio parere; non ho mai creduto in una pretesa oggettività dei giudizi, si tratta sempre di gusto: nessun critico è depositario assoluto della verità come una recente critica letteraria basata sulle scienze umane e sulla linguistica vorrebbero far credere. Inoltre non voglio scrivere di più sull’uomo, perché non vorrei cadere nella biografia psicoanalitica, che fa di ogni artista un caso clinico. Non voglio cadere in una psicologia della scrittura, che indaga sull’analisi del processo creativo, sulla relazione tra artista ed opera, sulla relazione tra opera e fruitore. Nemmeno voglio analizzare il contenuto latente, la sublimazione, il procedimento di simbolizzazione e le immagini primordiali dell’artista. A mio modesto avviso Padovano con questo suo ultimo lavoro è riuscito a dire tutto ciò che c’era da dire sulla questione giovanile oggi. È riuscito ad interpretare come pochi la condizione giovanile e a cogliere il significato esistenziale, psicologico, sociale ed ideologico di questa stagione della vita. Di pagine scritte da giovani o sui giovani ne ho lette parecchie, ma è rarissimo che mi emozionino. Molto spesso manca lo slancio. Altre volte invece manca la profondità. In America negli anni 50 Salinger scrisse “Il giovane Holden”, che in fondo era un adolescente. Ma in Italia cosa è mai stato scritto riguardo ai giovani di memorabile? Però procediamo con ordine. Occorre subito dare una definizione calzante di giovinezza. Ebbene per molti la giovinezza è quel periodo che si colloca tra l’adolescenza e la maturità. Ora comunque iniziamo a trattare l’opera. Vi ricordate lo scrittore francese Paul Nizan in “Aden Arabia”? In questo suo capolavoro scrive: “avevo vent’anni. Non permetterò più a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Questa terribile frase di Nizan ci fa intravedere il senso di quest’ultimo lavoro di Padovano. Il nostro ha colto totalmente nel segno. Con questa sua opera teatrale riesce a spiegare la giovinezza a chiunque vuole capire. Talvolta le intuizioni di uno scrittore possono “combaciare” con i risultati delle ricerche degli studiosi. Anche un esperto della psiche umana come Erik Erikson è giunto alle stesse conclusioni. In “Gioventù e crisi di identità” ad esempio Erikson scrive a proposito dei giovani, che si distinguono per “...una sprezzante e snobistica ostilità nei confronti dei ruoli presentati come opportuni e desiderabili dalla famiglia o dall’immediata comunità” (Armando Editore, 1974, pag. 154). Lo psichiatra Andreoli dal canto suo scrive che questa è la società del benessere e che i giovani dispongono di molti più comfort rispetto a quelli del passato. Però scrive anche che oggi le dimostrazioni di affetto dei genitori nei confronti dei figli sono estremamente rare e che un abbraccio oggi è quasi un miracolo. Lo psicologo Jean Piaget ha scoperto che adolescenti e giovani si contraddistinguono per l’utilizzo del pensiero ipotetico-deduttivo. Freud ha scoperto che l’uomo civilizzato ha barattato la libertà in cambio della sicurezza (in fondo l’aveva già detto Rousseau ne “Il contratto sociale” che gli individui cedono un po’ della loro libertà alla comunità) e anche che la civiltà è repressione delle pulsioni sessuali e degli istinti. Marcuse ne “L’uomo a una dimensione” introduce il termine “desublimazione repressiva” per indicare la morte dell’erotismo e l’accentuarsi della sessualità. Padovano ha capito tutto questo, questi aspetti li ha intuiti e ha compreso anche l’insoddisfazione giovanile. La sua opera descrive in modo magistrale quella che è stata definita “la generazione precaria” per la mancanza di un posto fisso (gli inglesi l’hanno definita flexi-insicurity), per le prestazioni part-time, per l’alto tasso di disoccupazione giovanile, per il fenomeno dei Neet (ragazzi che non studiano né lavorano). Queste pagine ci dicono che è insufficiente il welfare state per i giovani e che quindi la società non è sufficientemente equa. L’Italia è in ritardo se si pensa a temi come l’istruzione e il lavoro. Questo è un Paese arretrato se si pensa che il welfare è un concetto laburista di fine ottocento, volto a garantire i bisogni di tutti i cittadini. Domina incontrastato il principio del laisser-faire del liberalismo. E’ ciò che Adam Smith definiva “mano invisibile”. Evidentemente molti economisti credono ancora a ciò, eppure l’interesse del singolo e quello della società non sempre coincidono dal punto di vista economico. Il giovane è sempre stato una categoria sfuggente, seppur oggetto di analisi sociologica e psicologica. Padovano descrive cosa significa essere giovani nella post-modernità. Il nostro ritrae il mercato del lavoro, le facoltà universitarie, il divertimento, l’insicurezza, il relativismo culturale che mette al bando ogni credenza e valore. Descrive la sensazione di vuoto, l’apatia, le mille difficoltà, l’aspirazione all’uguaglianza, la voglia di libertà, la mancanza di indipendenza, l’assenza di prospettive. Lo fa senza utilizzare paradigmi teorici, che talvolta possono addirittura rivelarsi controproducenti. In fondo cosa possono fare gli adulti? Non possono far altro che essere empatici, privilegiare l’ascolto, essere comprensivi, evitare i rimproveri, non essere assillanti. Non possono far altro: la mitologia ce lo insegna. Icaro è l’archetipo della gioventù. Infatti esce dal labirinto grazie alle ali di cera attaccate alle spalle e fabbricate da suo padre. Però il padre avverte il figlio di non avvicinarsi al sole, ma Icaro non segue il consiglio e le ali vengono distrutte. Padovano in questa sua opera fa parlare ragazzi di diverse estrazioni sociali. Tutto è reale. Qui non c’è l’arte per l’arte. Questa è vita vera e cruda. È tutto un susseguirsi di conversazioni, che raccontano la situazione italiana: il mancato ricambio generazionale, la scarsa mobilità sociale, la proletarizzazione della classe media, la forbice sempre più allargata tra ricchi e poveri, le potenzialità inespresse dei giovani, le loro inquietudini, la loro ricerca di un’identità. Padovano ha fatto centro: ci ritrae in modo eccellente la vitalità, gli eccessi, la capacità di astrazione, la conflittualità con gli adulti, l’idealismo di questi giovani alla ricerca del proprio Sé (inteso sia come autocoscienza che come insieme di tratti stabili della personalità). Scandaglia il mondo giovanile senza fermarsi alle facili etichette come quelle di bamboccioni o di choosy (schizzinosi). I giovani della commedia sono giovani di oggi caratterizzati dal prolungamento della scolarità e dalla spinta a conformarsi al gruppo (al ciarpame, alla sregolatezza) ed è sottinteso nella commedia che essi siano dipendenti dal telefonino, dalla televisione, dai fast-food, dal turismo di massa, dal centro commerciale, dalla pizzeria, dalla musica leggera. Sono tutti senza lavoro e gli unici rimedi possibili sembrano essere quelli difficili dell’auto imprenditorialità (l’impresa di collane e anelli di chiodi di cavalli) della fuga verso l’estero o quello facile della raccomandazione. Siamo quasi al teatro dell’assurdo della “Cantatrice calva”: quasi, ma non fino a quel livello. I discorsi sono più che sensati (talvolta sono conversazioni brillanti), ma i personaggi sono inseriti in un contesto che si distingue per il minimalismo esistenziale (“la Boheme”), che è una condizione patologica per qualsiasi individuo a lungo termine. E’ la vita quotidiana di un gruppo di giovani ed è originale, perché è la narrazione di un mondo in cui si riflettono le tensioni morali e sociali attuali. Viene rappresentato anche un gruppo, inteso come insieme di persone con continue interazioni sociali, aventi uno scopo e delle qualità in comune. E’ un vero gruppo, perché gli individui sono interdipendenti, coesi, hanno senso di appartenenza e si identificano in esso. Inoltre entrambi sono legati da un vincolo di solidarietà. Nella commedia viene descritta anche la subcultura del gruppo: i suoi valori, le sue norme di comportamento, il suo stile di vita, la sua ideologia. Ma lo scrittore non narra solo la condizione giovanile, ma anche il contesto storico, sociale, economico odierno. Questa è la situazione italiana, in cui poche famiglie dominano l’Italia, il senso civico è scarso, è assente il senso dello stato e tutti sono schiavi del consumismo. In queste pagine vengono delineate l’inadeguatezza delle politiche per la casa, per il lavoro, per il diritto allo studio. Vengono raccontati gli italiani come realmente sono (ovvero un popolo di furbi, pasticcioni, corrotti, trasformisti, tragicomici), interessati al “particulare” guicciardiano e caratterizzati dal familismo e dal clientelismo. Insomma l’Italia è stata fatta, ma restano ancora da fare gli italiani. Ma qui il discorso si estende, perché’ viene posto l’accento anche sulle magagne della società attuale: la reificazione marxiana dell’uomo, il pragmatismo, l’utilitarismo, il materialismo, lo scientismo, la crisi del soggetto. In poche parole la società occidentale è suicidaria. Lo scrittore ci ricorda “il tramonto dell’Occidente” di Spengler e con esso la fine di ogni metafisica. Ma potrebbero essere altri i modelli di riferimento: “l’alienazione” di Marx, “la morte di Dio” di Nietzsche, “la gabbia di ferro” di Weber, il naufragio di Jaspers, la vita inautentica di Heidegger. Ma ritorniamo alla commedia: è tutto tremendamente reale, perché i giovani di Padovano non protestano; sono indignati, eppure non c’è alcuna forma di contestazione. Eppure questi giovani si salvano, perché non sono intrisi di nichilismo autodistruttivo e nemmeno sono superficiali come quelli il cui massimo delle aspirazioni è una comparsata in una trasmissione televisiva. Non finiscono nel giro delle sostanze psicotrope come nei libri “Alice, i giorni della droga” e “Noi, i ragazzo dello zoo di Berlino”. Riescono a salvarsi da una scomparsa prematura, cosa che non riuscì ad esempio al poeta Eros Alesi, che recentemente Giorgio Manacorda ha riconosciuto come uno dei migliori artisti della sua generazione (nonostante non abbia mai pubblicato un proprio libro in vita). Eppure questo giovane tossicodipendente nell’arco della sua breve esistenza scrisse delle poesie coinvolgenti e geniali come l’inno alla morfina e la lettera al padre (quanti talenti uccisi dalla droga!). Anche Kenneth Patchen, grande poeta americano, in “Scuola all’angolo” scrive: “non abbiamo nulla da fare; nessun luogo dove andare, nessuno” ed ancora “riusciamo ad assumere l’aria da giovanotti; / insensibili dietro ai nostri volti, in un modo o nell’altro. / Probabilmente non saremo del tutto morti quando moriremo.” (Lo stato della nazione, Guanda, 1967). Dunque anche per Patchen la giovinezza è disperata: è un coltello puntato alla gola e non potrebbe essere altrimenti, perché’ loro sono “ragazzi desolati”. I giovani di questa commedia invece non finiscono tra i giovani devianti e neanche si suicidano nonostante i concorsi truccati, la mancanza di meritocrazia, la manipolazione delle coscienze da parte delle comunicazioni di massa e l’indottrinamento della solita propaganda: in definitiva tutta l’irrazionalità della società capitalistica contemporanea. Illuminante per ogni giovane è “la danza macabra” dagli imprenditori, “il labirinto” della burocrazia statale. Cruciale è la scena tredicesima del primo atto quando Italo comincia a filosofare. Folgorante la sentenza di Italo a pagina 76 quando afferma che “l’unico ideale in questa società tecnocratica è la corsa al benessere”. Italo sembra avere un atteggiamento maieutico nei confronti degli altri compagni. Eppure questi giovani ce la fanno: chi insegna, chi gestisce l’officina del padre, chi diventa ambasciatore e si sposa. Lo scrittore forse ci vuole dire che non tutto il male viene per nuocere e che talvolta le contrarietà temprano e fortificano i caratteri. Mi ricorda un po’ Orson Welles ne “Il terzo uomo”: dice che l’Italia è il Paese dei Borgia e dei Machiavelli, ma anche di Michelangelo, di Leonardo da Vinci e del Rinascimento. I giovani italiani sanno improvvisare, anche se il mondo non è più quello di una volta, le famiglie non sono più patrilineari e l’etica non è più cristiana. Attualmente c’è una maggiore innovazione tecnologica, un maggior progresso scientifico (si pensi alle nuove scoperte della biologia, della microfisica, della medicina), ma la secolarizzazione ha causato quella che Durkheim definiva anomia. Forse il messaggio principale di questa commedia è che i giovani di oggi possono riuscire ad arrangiarsi anche se le istituzioni latitano, non esistono più momenti di aggregazione né grandi utopie. Questa commedia rappresenta in modo esemplare la provvisorietà del mondo giovanile e dire che in generale la condizione umana è di per se’ precaria come ci ricordano Pascal (“l’uomo è una canna in balia del vento”) e Ungaretti (l’uomo è “attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”). In definitiva questo libro smilzo nelle librerie e nelle biblioteche dovrebbe essere messo in mezzo a due libri, che trattano anche essi di economia, lavoro e società: “Estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata” di Michela Marzano e “Razza padrona” di Eugenio Scalfari.

 

Davide Morelli

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