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Apri la porta fuori c'è il sole

Apri la porta fuori c'è il sole

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La poesia di Antonella De Rosa è una poesia itinerante. L’autrice, audace e al tempo stesso pudica, ci prende per mano, e ci conduce, attraverso i suoi versi, in sette “chambres”. Sin dal principio, leggendo la silloge poetica, il mio pensiero è andato ad Edith Stein. E’ la filosofa ebrea che parla del cammino per entrare al centro di noi stessi, attraverso “l’attraversamento” delle "sette dimore" menzionate da Santa Teresa D'Avila. Non una stanza in più, non una stanza in meno, quelle dove la poetessa ci prende per mano e ci accompagna per le dimore della sua casa. Antonella De Rosa sembra non voler nasconderci niente: ogni angolo dello spazio che ella abita diventa nostro. Sembra che ciò che sia possibile solo grazie alla poesia, al valore che ella le attribuisce: “È poesia mia/la vera armonia/tra mente e cuore/sogna dolore e amore…/Così la piuma scrive/il dondolo di parole/d'astrusa fantasia/e/penosa malinconia.” E’ come acqua sorgiva la poetica dell’autrice, talvolta come un fiume in piena; di molto si è detto, di tanto, non ancora: “Come un libro/che giace in soffitta/dodici son le pagine scritte/ancor cento bianche/che aspettan/l'imbratto di china/fino alla fine/narranti l'essenza/variopinta leggiadra dell'anima,/intricata tra battiti ardenti,/dei loro cuori.”

L’anima, essenza variopinta e intricata, che Antonella accarezza; e lo fa con tenerezza: “meriggia la stanza,/se ascolti il tepore”, come in un ascolto interiore capace di mutare ciò che è a noi, esterno: “L'aria meriggia/ se ascolti l'ombra”.

La poetessa danza e lo fa con la grazia di una donna che ha conosciuto l’amore: “l'amore arpeggia/di sconosciuto momento/che svela l'intimità/talvolta silente/d'arrendevole voglia./Andiam di profilo/all'orizzonte.” Quando una donna ama, lì, è tutta intera, presa e padrona di passione: “galoppa sentieri/di brividi accesi/di selva boscaglia,/agogna ruscelli che inquietano/l’ardire di un vezzo d’amore.”

Ma le “chambres” dell’amore sono abitate da più affetti, ed ecco un ricordo d’infanzia: “un gocciolone mi scivola in faccia,/ma il vento l'asciuga/m'accarezza la guancia/come da piccola faceva la nonna/quando piangevo tra le sue braccia.”, la radice materna: “il sorriso di mamma,/come fresca sorgente/che brama il sapore/di acque e terricci/di natura sapiente./”, la tenerezza sopita nel cuore per il fratello morto: “Così dolcemente/sei volato lontano,/col tuo fare gentile”. La poetessa scende nei fondali dell’animo umano, profondendo a piene mani, i moti dell’anima; sentimenti universali dove ritrovar sé stessi. Libera le emozioni: “Nembo di cielo e/gorgoglio di tetti/l'arcobaleno rasserena tutti.” Ed ecco, che, lieve, si affaccia la melanconia: “Son goccia che trasuda la/terra/che si ribella di sbocciare in fiore.”, fino ad esplodere nel tempo giocoso: “Se hai imparato a volare/diventi pura energia,/che sprigiona le acque,/che di prato fiorisce.” La casa della poetessa ha molti usci, molte finestre e giardini: il suo itinerario si impregna di elementi naturali. Col mare  balla: “sciabordio scivoloso m'incanta di valzer”,  dagli umori si lascia invadere: “annusavo un respiro/rimestato di mare terra”. Lo spazio delle sue dimore è circolare: tira dentro gli altri, ciò che ci fa star male, i drammi del nostro tempo. La poetessa non è seduta alla finestra,  in atteggiamento passivo. Ella si discosta dal personaggio tratteggiato da J. Joyce “Eveline”, nella sua raccolta “Gente di Dublino”: “Stava seduta alla finestra osservando la sera che scendeva sul viale, con la testa appoggiata alle tendine e nelle narici l’odore del “crètonne” polveroso; si sentiva stanca.” Tutt’altro che stanca la nostra poetessa. Determinata, denuncia: “Lupi famelici//affamati di cose/assetati di soldi.” E’ verga per i responsabili della terra dei fuochi: “Flagella la Terra/affoga innocenza,/dà brividi lividi/di morte annunciata.”. E’ disillusa e ribelle contro i beceri poteri: “Or siam lieti di certezza/che l'inganno c'accarezza/c'arrovella l'incertezza/ci sconsidera la sorte/s'incatena l'esistenza/dando forza all'arroganza/dei poteri impertinenti. Si fa prossima all’insana natura della violenza alle donne: “Avviluppata dal suo germoglio/disamorato e ossessionato/da genia cresta./Chi teme i frutti/chi geme i lutti.”

Ma la poesia è redenzione, è nuovo volo, e di questo la poetessa ne è, in pienezza, consapevole,. E’ così che annuncia, in speranza: “Quantunque gli eventi/avean imbrigliato il sentiero,/l’anima ha stretto quell’antico momento,/che pulsava d’amore./Orsù il porto è annunciato/da solisti aleggiati.”

La formazione classica della poetessa è ben presente nel libro: “Riecheggia/d'antico un’ode per Tiche.” Delicatissima la musicalità dei versi: “D’amor sospira il pettirosso/…Segue la scia del vento/agile anela geminidi/brillanti e santi.”

La metrica di Antonella è “wagneriana”, nel senso che non dà alla ragione il tempo di impadronirsi di quel calcolo che rende artificiosa l’armonia dei versi. È, in altri termini, spontanea, e, a tratti, inconsapevole, perché già presente nel verso così come pensato e scritto di getto. Si nota qua e là qualche colpo di lima alla parola, ma è soprattutto un fatto ludico. Laddove nei versi c’è corrispondenza sillabica, scatta subito la fuga, come se una verseggiatura uguale venisse a costituire una gabbia da cui l’autrice vuole evadere prim’ancora di entrarvi; il che si traduce in una forte istanza di libertà dai canoni tradizionali, e in una dodecafonia di suoni.

Un guizzo di luce la scelta di anteporre sugli usci delle “chambres”, cangianti opere d’arte, oli su tela, dell’artista Xenia Miranda.

La poesia di Antonella De Rosa cerca compagnia: siam tutti/e in piedi, con la voglia di andare: “Riverbera delicata fattezza/l'ingresso di casa/come moina l'alba,/ai primi sussulti del sole.”  

 

Enrica Romano

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