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Il breve racconto della mia vita

Il breve racconto della mia vita

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Esistite da sempre, la narrazione autobiografica e la biografia si sono evolute nel corso del tempo, fino a rappresentare due antichi, consolidati e istruttivi generi letterari, che ben si prestano a una plurarlità di letture, fonti e interpretazioni critiche. Ma, nella storia di Tursi, tali pratiche sono sostanzialmente evitate all’interno dell’altalenante produzione dei diversi autori tursitani. Non rimane altro, infatti, se prescindiamo da alcune rarità: la vita del venerabile Servo di Dio Padre Andrea Picolla1 (Tursi, 22 marzo 1666 - 22 marzo 1730), un noto manoscritto in latino del 1732, del priore Francesco Maria Sabarese, nel tentativo riuscito di spiegare l’odore di santità del frate della Congregazione dell’Oratorio di Tursi; esiste pure, volendo allargare un po’ il criterio, un manoscritto tuttora inedito sugli uomini, sui beni e sulla vita dell’intera e nobile famiglia Brancalasso2 (discendenza dinastica importante a Tursi, almeno dal XV secolo agli inizi del Novecento), vergato da un notaio e/o da un discendente, nel 1744 (la copia è passata al tursitano Filippo D’Aloisio, notaro nel periodo 1818-1848); inoltre, si possono annoverare un saggio dell’Ottocento di Medoro Savini e una recente tesi di laurea negli USA di Whitney Stoke, entrambi sulla vita e la poesia di Laura Beatrice Fortunata Oliva Mancini3 (Napoli, 1821-Fiesole, 1869), figlia del letterato Domenico Simeone Oliva (Tursi, 1783-Napoli, 1842), illustre tursitano; un ricco filo lega pure l’esperienza di emigrante e i due ottimi memoriali dell’insegnante Elementare Giuseppe Padula4 (Tursi, 1927 - Erba, CO, 2005), che ha vissuto con la famiglia nel comasco; il recente lavoro di Giovanni Di Tommaso (Tursi, 1946), professore di Filosofia ed emigrato a Milano nella seconda metà degli anni Ottanta, di assai pregevole fattura e orientato al suo rapporto con la trascendenza; infine, circoscritti ma fondamentali rimandi autobiografici sono alla base della sofferta elaborazione esistenziale nel libro, appena edito, di Letizia Titolo5 (Tursi, 1953), anche pittrice, emigrata nel 1999 a Bologna e oggi a Padova.

Nell’amato paese, dunque, gli autori sembrano quasi caratterizzati da una sorta di riservatezza e ritrosia nel proprio viaggio misto pubblico-privato, ma se si vive lontani, pur nell’esiguità della cifra assoluta, si constata una maggiore apertura e disponibilità a riferirsi o a farsi raccontare. Tuttavia, l’esperienza dei social network è pensabile che prima o poi possa favorire di fatto il concretizzarsi di “(auto)biografie” più o meno veritiere ed autorizzate. I residenti, comunque, sono più adusi alla fattura di rime, non importa se baciate dalla fortuna critica o di pubblico, eccezion fatta per il grande e prolifico poeta Albino Pierro (Tursi, 1916 - Roma, 1995), anche con l’invenzione della lingua dialettale, per meglio scandagliare la terra del ricordo e il senso crescente e sempre incombente della morte.

 Al Vate Tursitano, che ha vissuto altrove a lungo e poi per decenni nella Capitale, si rifanno un po’ tutti gli epigoni in loco, chi più chi meno, ma sempre con esiti imparagonabili e ancora lontani dal modello originario. Discorso a parte per i percorsi poetici complessivi e interessanti di alcuni: Maria Carmela Giuseppa Antonia Domenica Vincenzina Ayr (Tursi, 1873 - Roma, 1957), di colta ispirazione classicheggiante, dolente e intimista; Susanna Boyraw (pseudonimo di Maria Rosaria Domenica Tauro, Tursi, 1960), dall’inquieta impostazione sperimentale; Rosa Maria Fusco (Matera, 1953), con il suo spiccato impegno femminista; Antonio Popia (Tursi, 1939), sempre ironico, arguto e nostalgico; Francesco Santamaria (1937 - 2014), orientato a un attivo e multiforme neoumanismo; Vincenzo Alberto Di Noia (Tursi, 1924 - Udine, 2013), fruttuoso, genuino e dalla vigorosa visione; Guido Capitolo (Tursi, 1906 -Udine, 1960), classico, disincantato e malinconico. Costoro, assieme forse a pochissimi altri, hanno saputo manifestare comunque una loro precisa e sensibile identità creativa, peraltro quasi tutta al femminile o nella robusta diaspora consolidata.

In sostanza, sulla mancata pratica dell’azione biografica e autobiografica, non è da escludere neppure una eterna e universale spiegazione antropologica, interna all’umanità e al suo inconscio collettivo, perciò paradigmaticamente assimilabile a tutte le realtà non soltanto minori, in ogni dove. Una motivazione, dunque, che attiene certo alla globalità della condizione e finitudine umana, alla psicologia degli individui e alla quotidiana filosofia del rapportarsi con la dimensione del vivere, del crescere, del tempo, della religione, della morte. I singoli, cioè, sembrano avvertire in loro un senso dell’ordine cosmico delle cose e del destino, traendone la percezione di un ruolo infinitesimale e un’appena minima significanza sociale o, addirittura, una sostanziale esclusione dal flusso della storia e dei grandi eventi, perciò ricavandone pure, e di conseguenza, l’errata persuasione dell’inutilità del proprio discorso narrativo. E tale convinzione si impadronisce anche di una moltitudine che possiede gli strumenti tecnici e culturali per l’eventuale produzione nella tipologia delle svariate forme: agiografia, apologia, (auto)intervista, commentario, confessioni, cronache, dialogo, diario, epigrafe, epistola, indicazione terapeutica, lettere, lirica, opera teatrale, cinematografica o televisiva, orazione, raccolta di memorie, relazioni, resoconto, ritratto, romanzo, soliloquio. Un diniego e una rinuncia di massa che valgono come un’incolpevole autocensura nei fatti, e una concreta risposta al loro stesso dilemma esistenziale, addebitabile al caso, alla fortuna o all’inconscio che dir si voglia, poiché presuppone comunque l’avvertita accettazione del proprio duraturo anonimato. Non si scrive una (auto)biografia perché (si) resti in eterno nell’ombra. Non tutti sono artisti, attori, calciatori, cuochi, dongiovanni, docenti, eroi, esploratori, filosofi, finanzieri, giornalisti, imprenditori, intellettuali, inventori, letterati, medici, milionari, militari, musicisti, naturalisti, piloti, poeti, politici, regnanti, religiosi, rivoluzionari, santi, scienziati, sportivi, statisti, teatranti, e via dicendo di molti altre categorie e specializzazioni, per le quali personalità prevale la “celebrazione drammatizzata dell’individuo eccezionale”. A differenza dello storico, infatti, il quale considera gli uomini soltanto “nel più vasto movimento dei fatti complessi e nelle più efficaci attinenze con la vita pubblica”, il “biografo”, si rappresenta “solo nei più salienti rilievi della sua persona singolare”.

E questo avviene quasi con naturalezza e spontaneità nella generalità dei casi e, forse in modo più o meno voluto, in una minoranza sensibile alla problematicità del proprio viaggio vitale, del segno da tracciare e lasciare, superata storicamente l’idea che ciò appartenesse alla consapevolezza di imperatori e reali, alle coscienze religiose di beati o asceti o alla unicità del genio, quale che fosse. Autobiografia deriva, com’è noto dal greco autòs, stesso, bios, vita, gràpho, scrivo, a prescindere dall’utilizzo della prima o terza persona. Dunque, se si possiede almeno una minima dimensione dell’interiorità e della relazionalità, dell’analisi psicologica e della memoria, oltre ad avere una sensata lettura fattuale e cronachistica, chiedersi perché farlo, a che serve, a chi mai potrà interessare la vita mia, equivale già a una (non) risposta.

Intima gioia e vera emozione, dunque, ho provato nell’apprendere la gradita sorpesa, rivelatami direttamente da Francesco D’Errico. Nulla sapevo di questa scrittura, fino agli inizi di settembre del 2015, in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna Maria SS. Regina di Anglona, durante la permanenza dell’autore a Tursi, perché lui è attaccatissimo al paese e ha sempre mantenuto legami, rapporti e relazioni, non soltanto con i familiari tutti. Ne sono una riprova i tanti ritorni, ogni anno o quasi. Seduti a un bar nella centrale piazza, mi fece cenno della prima stesura, che risaliva al 2009, e subito gli manifestai l’intenzione di averla e, successivamente, già dopo una rapida lettura, altrettanto immediata l’idea di pubblicarla.

Il valoroso e ricco tes(tament)to dell’ultra ottuagenario e lucidissimo Ciccio D’Errico, si pone come ponte esistenziale e letterario tra i tursitani residenti e quelli dell’emigrazione almeno in Italia, ed è comunque il primo tentativo in assoluto di una persona tranquillamente normale nell’accezione ordinaria e senza elevati studi regolari, ma che potremmo definire anche “uomo comune” senza sbagliare, essendo egli una sorta di straordinario e solitario eroe del quotidiano, come quasi tutti coloro che a questo mondo agevolano il corso della storia senza mai assurgere al ruolo di protagonista o comprimario, talvolta non essendo neppure una comparsa degli eventi. Ma si incorrerebbe in un errore grossolano se sminuissimo una esistenza come la sua, così ricca di esperienze, perché lui è stato sicuramente “qualcuno”, anzi di più, un personaggio a suo modo unico e irripetibile nell’umano panorama tursitano e perfino nell’Arma, raro “Carabiniere a cavallo”.

Ciccioil Maresciallo”6, amabilmente sempre così per gli amici e i familiari, è stato e continua a essere uno stimato e leale rappresentante dell’Arma dei Carabinieri, per oltre un quarantennio, fino al massimo grado di sottufficiale, prima in diverse parti della penisola e soprattutto nel salernitano. Adesso vive nel piccolissimo borgo di Carillia, del comune di Altavilla Silentina (a circa 180 km da Tursi), vicino a Eboli e non distante dalla stazione nella quale ha lavorato a lungo, a Battipaglia, dove “si cambia”, ci ricorda un celeberrimo motto ferroviario, ma in realtà egli è rimasto sempre fedele al suo ideale e ai sogni incrollabili di fanciullo.

L’autore, perciò, non deve dimostrare nulla nè ritrovarsi con se stesso e neppure riconciliarsi con chicchessia o ricostruire una propria vocazione e manco ricomporre presunte contraddizioni. Egli è un tenace autodidatta, di mai rinnegate umili origini, adorabile padre di famiglia, cattolico praticante e fortemente innamorato del sapere. Una persona intelligente, perbene e simpatica, onesta e saggia, è bene rimarcarlo subito, con un alto senso del dovere, grande dignità e invidiabile maturità e umanità7.

Come tutte le narrazioni autobiografiche, anche questa è necessariamente sintetica, parziale, selettiva ed essenziale, con una scansione degli avvenimenti che dovrebbe agevolare la comprensione del percorso di crescita interiore, la genuinità dello spirito e l’articolazione del pensiero dell’autore, il tutto accomunato a una robusta visione etico-morale più che rispettabile, anzi per molteplici aspetti condivisibile, essendo ancorata a valori universali.

Della classica autobiografia, quindi, Il breve racconto della mia lunga vita ha una struttura narrativa consolidata dalla migliore tradizione, la progressiva e abbastanza lineare cadenza temporale, una sostanziale ed eccezionale puntualità di nomi e date, fatti e circostanze, e la tendenza a inserire con misura la propria esitenza in un contesto più ampio di vita, relazioni e affetti, senza inutili psicologismi, propri e altrui.

E se in qualche caso ipotetico la memoria dovesse rivelarsi involontariamente imprecisa, più che un difetto, a noi pare uno stimolo per il garbato lettore, che dovrà essere attento a socializzare, con costruttiva dialettica postuma, una verità più esatta. Anche perché si ripropone l’antico dilemma, di cartesiana memoria: è preferibile vivere nell’errore piuttosto che nell’ignoranza.

Il limite della mancanza di studi metodici e sistematici, infatti, non può essere inteso come un ostacolo verso l’illuminazione di pun punto di vista altro, nel caso magari affettuosamente partigiano e per niente agiografico, proprio perché privo di intellettualismi anche formali e di contorsionismi concettuali controproducenti. Ma su tutto predomina l’ansia dell’uomo scrupoloso e della sempre romantica resocontazione della verità, con un lodevole taglio cronachistico e direi anche giornalistico, di ricercare l’autenticità mettendesosi a nudo, esercizio tipico degli autori che amano confrontarsi con il passato-presente ma anche e soprattutto con il futuro, perché è fatale che la memoria fissata gli sopravviva e quel che resta dovrà fare i conti con la posterità. Ma, prima di ogni altra cosa, il suo è uno struggente atto d’amore, senza altre pretese.

La scrittura è lineare e il tono colloquiale, i ragionamenti semplici ma mai banali, la concettualizzazione è trasparente, specchio fedele di un uomo giusto con l’anima quietata. Il suo “eroismo intimistico” chiarisce tuttavia come da umili e misere condizioni si possa pervenire a una “nobile meta” e certo si inserisce nella umana lotta dell’uomo per “l’illusione dell’eternità”. Nella riproposizione fattuale pare annullarsi inconsapevolmente la distinzione tra persona reale e personaggio narrato, facendosi egli stesso “guida” nella diacronia temporale e manifestando un particolare interesse per taluni aspetti sociali, folcloristici e anche di critica politica e ideale, con sprazzi di acuto umorismo senza derisione, oltre a instillare una sorta di “vocazione pedagogica”. E comunque, giammai l’impresa è autocelebrativa, edulcorante o travalicante.

Di certo, inoltre, la lettura aiuta a far comprendere a tutto tondo il carattere dell’autore, laddove essere e apparire combaciano assolutamente. Ecco, sembra dirci D’Errico, sono questo, nulla di più, nulla di meno. Si pone quindi come un implicito e psicoanalitico ritratto psico-morale dell’autore, animo nobile di un cavaliere in congedo, mentre delinea il suo non facile cammino umano e professionale, totalmente elaborato e perciò deprivato di qualsivoglia asprezza polemica, fino al limite del silenzio che potrebbe apparire omissivo su talune vicende nazionali di clamore. Egli palesa autenticamente l’attaccamento all’Arma, che tutto gli ha dato, il suo sviscerato amore per la vita e l’afflato per il paese natale, il rispetto per le persone scomparse, pur differenziandone le qualità e il valore, e il culto dei morti, oltre alla piena, serena e consapevole accettazione dell’ineluttabile.

Come autore di versi, una passione genuina cresciuta con gli anni, ha ottenuto dignitosi riconoscimenti. È autore prolifico, modesto e gentile. Ha iniziato a scrivere dopo il collocamento a riposo. Una produzione quasi del tutto sconosciuta, pur avendo ricevuto diversi apprezzamenti e alcuni premi, targhe e diplomi significativi (anche all’estero, in Spagna). Con bonarietà e umiltà D’Errico ama dire: “Forma d’arte, di nobili pensieri e di trasfigurazione della realtà, la poesia è sempre autentica espressione dell’animo e della personalità del poeta, un dono di Dio, in grado di valorizzare l’uomo e la cultura, suscitando grandi emozioni e sublimi sentimenti. In tal senso ha sempre qualcosa da insegnare a chi è disposto con genuinità e apertura. Poeti si nasce, la vita può solo agevolare oppure no il fatto che si abbia la possibilità di manifestare appieno tale ricchezza interiore”. Aspetti centrali dei suoi versi sono, appunto, il ricordo, l’afflato umanitario e il rigore morale, tutti elementi dell’ispirazione che confluiscono in modo unitario e inestricabile in una robusta concezione filosofica dell’esistenza, fatta di poche certezze incrollabili poiché universali e di esortazione ad elevarsi sempre, attraverso l’esperienza e la conoscenza, che sono insieme e non separatamente maestre di vita. Dunque, nulla di più bello al mondo tra persone che hanno saputo comunicare, poter dire noi alla fine: si, siamo grati alla vita e alla fortuna per l’opportunità che ci hanno dato, di averci fatto conoscere un Uomo.

Proprio quest’ultimo aspetto di D’Errico, di essere un uomo aperto e trasparente, che suscita fiducia prima ancora che rispetto, è alla base della sua immagine chè è sostanza, e non appaia esagerato o paradossale per un carabiniere. Che incarna l’idea di Stato e ha pure la caratteristica fisionomia del buono, della legalità, dell’ordine, proprio come il gradimento dell’Arma che è al primo posto tra le forze dell’ordine, per simpatia, considerazione e stima (nell’immaginario collettivo) degli italiani, Benemerita, appunto. Nelle calamità, nelle sventure, nel disagio, nelle beghe e nel bisogno, sempre sono stati chiamati ad intervenire, per soccorrere, salvare, aiutare, agire, capire e indagare, reprimere, non più solo per rimarcare la vicinanza e il sostegno al potere, com’era la funzione al tempo delle origini8.

La cultura, la civiltà, la storia, la formazione e l’educazione, con la consapevolezza della fatalità di certe spirali dell’odio, spingono i cittadini a disapprovare il crimine e a risolvere le questioni senza ricorrere alla violenza e, quindi, a riconoscere il coraggio, il valore e la lealtà istituzionale dei presidi necessari per garantire la sicurezza di tutti. I duecento anni di storia, festeggiati degnamente nel 2014, sono in realtà una miriade indelebile di uomini e idee e di genti che hanno saputo interagire tra loro e nella società in evoluzione, per il bene comune, il progresso della Nazione e la difesa delle istituzioni e dei cittadini.

Normale e giustificato il risalto dei media all’Arma, dalla stampa quotidiana e quella periodica (ma si pensi ai carabinieri del Pinocchio di Collodi9), con inumerevoli copertine e reportage, articoli e approfondimenti, e memorabili illustrazioni dedicate (chi non ricorda le magnifiche tavole di artisti come Beltrame, Pisani e Molino, sulla Domenica del Corriere o sulla Tribuna illustrata). Lo spunto è il fatto di cronaca, l’impresa, ma si ascende nell’immaginario, per l’epopea della Benemerita. Che si coronerà in televisione, e prima ancora nel cinema, con una rappresentazione coerente, nella quale, tranne rarissime eccezioni, il bene trionfa con il lieto fine, pure a costo del supremo sacrificio, quasi sempre nella quotidiana certezza di fare unicamente il proprio dovere, senza attendersi riconoscimenti o gratificazioni, riconoscenza o premi.

Il cinema già dalle origini esalta le gesta dei carabinieri e l’Arma dedica alla Settima arte, nel 2002, il suo Calendario dei Carabinieri, nel quale si ripercorrono i film più rappresentativi, per le vicende, i personaggi e l’operato dei militi. L’anno dopo, nel Calendario, tocca ai Carabinieri nella televisione, anche con l’incremento di fiction televisive negli ultimi anni. L’edizione del Calendario dei Carabinieri del 2005 sviluppa un racconto del grande Andrea Camilleri (l’autore de Il Commissario Montalbano), con la figura in uniforme di un maresciallo di stazione, nella sua sfaccettatura di investigatore, consigliere e padre di famiglia. L’arma ha intensificato da decenni il suo rapporto con i mezzi di comunicazione, fino ad assumere in essi i tratti del personaggio, dell’eroe mediatico, della figura simbolo. Non a caso, l’atteso approdo in scena dei carabinieri, con discrezione e senza forzature, essendo nel cinema e in televisione inscindibilmente caratterizzati da professionalità, lealtà e di umanità, indica pressocchè sempre, una risoluzione opportuna delll’intreccio, un ritorno alla normalità e all’ordine della realtà drammaturgica. E questo accade perché il cittadino-spettatore ne avverte la vicinanza e ne riconosce l’autorità, un riconoscimento che si estende all’Arma nell’intera società.

Sono diversi e numericamente significativi i film, girati fin dall’epoca del muto, talvolta esportati con successo, riferiscono gli storici del cinema. Dal 1909, la Cines dedica ai carabinieri un filone (oggi diremmo un real movie), con altre produzioni negli anni Dieci di genere comico, con impertinenza, sfrontatezza e anche irriverenza (tono canzonatorio sopravvissuto come luogo comune fino ai nostri giorni nelle “battute”, non certo negli scherzi che, difatti, non esistono). Su tutti il film comico di Cretinetti

Arrivato tecnicamente il sonoro, in Italia al tempo del fascismo, il ruolo dei carabinieri si circoscrive, forse per la loro fedeltà alla monarchia, sostengono alcuni, più probabilmente, ritengo, perchè essendo l’imperativo “i panni sporchi si lavano in famiglia”, la nuda e cruda realtà non poteva essere sbandierata bellamente, tant’è che la cronaca nera lascerà il posto alla retorica e all’edulcorazione, e anche ai telefoni bianchi. Detto altrimenti, la realtà lascia il passo alla propaganda del regime e del Duce, che vagheggia trionfi e vende illusioni a buon mercato, tra polpettoni mitologici e i film biografici (biopic), avendo a modello i fasti della Roma antica e i deliri imperiali, prima di finire egli a testa in giù.

Dal secondo dopoguerra in poi, la raffigurazione cinematografica del carabiniere si è arricchita, non soltanto nella collocazione storica della lotta al brigantaggio. I personaggi sia del neorealismo che della commedia all’italiana, si rivelano nella tipizzazione di militi davvero magnifici e bonari. La loro era una divisa che univa, come tutta l’Italia da ricostruire. Con il “boom economico”, la società è iniziata a cambiare in profondità, facendo emergere piano piano la furbizia, la cattiveria e il cinismo della “folla solitaria”, nell’era delle comunicazioni di massa e del dominio della televisione. E tutto questo non poteva essere ignorato o eluso dalle produzioni contemporanee e a noi più ravvicinate, essendo sintomatiche e specchiate riprosizioni della ibridazione dei sentimenti dell’uomo moderno, più effimero ed esibizionista, corrotto ed egoista. Sono i film politici, d’impegno civile degli anni Settanta-Ottanta. La società è caratterizzata dalla contestazione e dalle agitazioni sociali, dalla stagione dei diritti e dalle strategia della tensione, dalla austerità e dalla rottura del monopolio televisivo. L’immagine dei carabinieri resta pur sempre un baluardo speculare, complesso e dialettico, su tutti si stagliano i film sul martirio di Salvo D’Acquisto (23 settembre 1943), sull’attenato mortale al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982) con la sua scorta e sulla strage di Nassiriya, in Iraq (12 novembre 2013). Non mancano i prodotti senza pretese, le carnavelate sarcastiche, con l’intento di far ridere, ma la qualità latita e lo stile diventa irriconoscibile, mentre i protagonisti in divisa sembrano oscillare anch’essi tra il loro pubblico e privato, confermando pur sempre la loro umanità e lo spirito di servizio. Tra le commedie garbate e riuscite in televisione, nel solco dello stesso approccio sociologico, brilla certo Il Maresciallo Rocca, la serie della Rai di grande successo, seguita da Don Matteo, che intreccia il binomio parroco e maresciallo, mentre la fiction Carabinieri, reti Mediaset, introduce il personaggio femminile nell’Arma. Dunque, un ritorno a un cinema intimista, con gli approfondimenti psicologici di fronte alla sofferenza e all’emarginazione, ai conflitti (anche internazionali) e agli intrecci politico-affaristici e malavitosi, che richiedono e impongono nuove risposte e ulteriori sforzi e sacrifici per arginare, contrastare e battere i poteri forti e una diffusa percezione di illegalità, ingiustizia, immoralità e anche di crescente criminalità e violenza. “Al cinema come in televisione, tuttavia, l’Arma continua a suscitare stima e rispetto, ad essere depositaria degli ideali di ordine e sicurezza, talvolta al prezzo della vita stessa dei suoi uomini. E anche questa, in fondo, è una conquista orgogliosa e sofferta della democrazia e della libertà”.

La finzione è come la vita, poco importa che ne sia semplicemente ispirata o una sceneggiatura originale oppure una ricostruzione documentaristica di fatti realmente accaduti. E il cinema italiano ha trattato sempre con rispetto l’Arma, offrendo un’immagine sostanzialmente più che positiva e talvolta eroica dei carabinieri, sempre in servizio, anche dopo il congedo, a tutela della legge e a difesa dei cittadini, esaltandone la lealtà, l’attaccamento e la devozione, segnati da un’etica dell’onore che di fatto non li abbandona mai.

E “Ciccio” sembra quasi arrivato dalla fantasia degli schermi cinematografici, più del teatro in grado di restituirci l’impressione di realtà, con la ricchezza della fantasia talvolta preceduta e superata dalla cronaca quotidiana, con la sua iperbolicità e crudezza. In una carrellata veloce dei film italiani10  (1905),  in bianco e nero e a colori, restano memorabili le superbe, raffinate e intense interpretazioni ancorchè brevi o da protagonisti, in situazioni realistiche, drammatiche o comiche, almeno quelle di Vittorio De Sica, Totò, Peppino De Filippo, Nino Manfedi, Ugo Tognazzi, Renato Rascel, Lino Ventura, Tino Buazzelli, Saro Urzì, Leopoldo Trieste, Paolo Graziosi, Guido Celano, Roberto Risso, Vinicio Sofia, Memmo Carotenuto, aggiungendo le altre di Alberto Sordi, Carlo Verdone, Enrico Montesano, Massimo Boldi, Lando Buzzanca, Bernard Blier, Vincenzo Salemme, Maurizio Casagrande, con Franco Nero, Massimo Ranieri, Stefano Satta Flores, Silvio Orlando, Diego Abatantuono, Enrico Lo Verso, e ancora Arnoldo Foà, Turi Ferro, Pino Caruso, Gigi Proietti, Leo Gullotta, Renzo Montagnani, Stefano Accorsi, Raoul Bova, Luca Barbareschi, Nino Frassica, Ezio Greggio, Andy Luotto, Flavio Insinna, Lorenzo Crespi, Daniele Liotti, Emanuela Arcuri, Alessia Marcuzzi, senza dimenticare i forse meno noti, pur se di indubbio spessore recitativo, come Alberto Capozzi, Egidio Candiani, Pietro Bigerna, Attilio Dottesio, Michele Riccardini, Antonio Gradoli, Paolo Ferrara, Armando Furlai, Mario Milita, Giorgio Maulini, Pier Luigi Aprà, Frank Raviere, Antonio Jodice, Pasquale Tartaro, Arturo Cirillo, Cosimo Mamone, Raffaele Vannoli. Alessandro Cavalieri, Luigi Santamaria, Roberto Libertini, Eduardo Cuomo, Giorgio Crisafi, Vanni Fols. Tutti loro hanno tratteggiato figure di carabinieri indimenticabili. Proprio come il Maresciallo D’Errico.

Tursi, 20 dicembre 2015

Salvatore Verde

Maestro dell’Infanzia e giornalista storico

locale e autore di cinema

 

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