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Una vita da profugo

Una vita da profugo

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La realizzazione di questo libro può definirsi un atto di amore verso due terre: l’Istria, dove Dino, il protagonista, è nato, e la Sicilia, dove lo stesso, da esule, è stato costretto a trasferirsi e a vivere. 
Il libro trae origine da un’intervista, che è diventata il racconto di quanto è accaduto a Dino e alla sua famiglia. Infatti, in seguito agli eventi storici che si sono verificati nell’Istria degli anni ‘40 e ‘50, essi si sono trovati dinanzi alla necessità di diventare profughi, per non finire “infoibati” in una delle circa 1.700 fosse carsiche presenti nel territorio istriano. Il protagonista, nel raccontare la propria vita, integra questa con ricordi di familiari, persone e fatti che rendono il racconto più vivace, completo e vario.
Dino è un bambino che mostra tutta la sua ingenuità e la sua fantasia quando, mentre la città di Rovigno sta per essere bombardata, è contento perché andrà a mangiare quel buon piatto di “bisi e risi” o quando, affascinato dal passaggio dei “plani mici”, vorrebbe, da grande, fare proprio l’aviatore. 
Dovrà, invece, fuggire dalla propria terra, con i propri genitori ed i piccoli fratelli, mangiare la brodaglia del campo profughi di Venezia e, in seguito, anche le bucce di arance “condite” con la terra che altri suoi coetanei lo costringeranno ad ingoiare.
Successivamente, “emancipatosi”, pur se ancora piccolo, lo si vede, con l’arma in pugno proprio come nel “far west” americano, pronto a farsi giustizia da sé.
Dall’intervista emerge pian piano e sempre con maggiore evidenza che, anche moltissimi siciliani, sebbene in altro modo, si sono trovati, e si trovano ancora oggi, costretti a fuggire dalla propria “Terra”, diventare profughi e andare a cercare fortuna lontano, per non morire di fame o di stenti.
Dal racconto della vita di Dino esce un quadro amaro di due “Terre”, Istria e Sicilia, che, per motivi diversi, vedono la propria gente martoriata e costretta alla fuga. Non solo, emerge, anche, un forte scontro tra due modi di vivere, con tradizioni e costumi diversi, che può essere riassunto nelle frasi dette sia dal nonno di Dino che dai due anziani braccianti agricoli, durante le interminabili giornate di lavoro al “Mizzaro”. 
Interessante, a tal proposito, è l’affermazione del nonno di Dino: “Ostia, non sta a vidi ca te ciul par il cul”? che mira a spronare i braccianti a reagire e a non vivere da sottomessi, alla quale si contrappone quella detta da “ ‘U ‘zì Peppi”, che, rassegnato, dice: “Ma lassami stari… ma lassami stari…”, riproponendo, così, la “logica dei Vinti”, descritta magistralmente dal Verga quasi un secolo prima.
Da tale “colloquio” emergono “due realtà a confronto”, due “Terre” agli antipodi. 
Da una parte il Nord-Est e l’Istria, dalla parte opposta, il Sud-Ovest e la Sicilia.
Due terre della stessa Nazione, ma molto distanti tra loro.
Uno scontro di civiltà che ci riporta alla celeberrima frase attribuita a Massimo D’Azeglio: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” che, dopo oltre 150 anni, è ancora assolutamente attuale, dandoci occasione di riflettere, ancora una volta, sull’operato dei “Mille” e di “Garibaldi”.
Dino ha lottato contro l’ingiustizia, la paura, il malgoverno, il malcostume e l’immobilismo. Ha fatto di tutto per difendere il territorio e l’ambiente, affinché la legalità, la qualità della vita, la serietà degli studi e la democrazia autentica, fossero affermate anche in Sicilia.
Dopo vari decenni, avrebbe dovuto fuggire pure da questa terra pirandelliana, dove niente può e deve cambiare, perché “munnu à statu e munnu è”. “No”, sembra dire. “Da qui non scappo e continuo a lottare”, anche se sa bene che non sarà facile dare il proprio contributo per la realizzazione di una democrazia vera e concreta, che possa essere non solo declamata ma anche affermata.

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