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Prime prove di Democrazia nel Salernitano. Montesano sulla Marcellana e il sindaco Giuseppe Cardinale

Prime prove di Democrazia nel Salernitano. Montesano sulla Marcellana e il sindaco Giuseppe Cardinale

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Quando ho ricevuto le bozze di questo libro, confesso che, fulminea, una domanda mi si è affacciata alla mente: ma serve davvero la storia locale? Altrettanto fulminea la risposta che mi sono dato: certo che sì. Ad una condizione, però. A patto che le ricerche sulle vicende delle nostre terre non si rattrappiscano in pettegola curiosità campanilistica e non ripieghino su notiziole erudite che sfiancano la mente senza mai sollevarla ai problemi più larghi che percuotono l’umanità. Sta bene il particolare, allora, purché si ingrani col generale; va bene lo specialista, ma solo se lo specialista non uccida l’uomo e non gli impedisca di guardare con cuore caldo alla vita che gli turbina dintorno. Se no, no.

Stando così le cose, mi è grato testimoniare che ho letto con profitto le pagine di questo saggio perché anche quando gli autori fermano l’attenzione su aspetti assai circoscritti e su personaggi sconosciuti ai più, anche allora non ti assale mai il dubbio che essi ti stiano rinserrando nella prigione di cianciafruscole minute dove non c’è né luce di cielo né aria di pensiero. E anzi, testimonianza nella testimonianza, confesso che proprio da lì, da uomini e vicende occorse alle particolarità delle nostre terre, proprio da lì ho tratto ristoro per alcune idee già maturate in precedenza, ancorché elaborate su numeri più ampi, territori più estesi e tempi più lunghi. Un po’, dunque, come succede su di un piano diritto alla danza di una linea ondulata, che pur volteggiando su di esso, pur sopravanzandolo nelle curve dei suoi movimenti, qualche volta ci rimbalza sopra, lo tocca e se ne rinfranca. E così sono tornato da questa lettura riconfermato in un paio di acquisizioni che già per tempo si erano rapprese alla mia intelligenza ma che ora ho visto cadere a perpendicolo sulle storie della nostra terra.

La prima di queste verità è che nel Vallo non ci fu argine all’affermazione del fascismo; con nessuna resistenza attiva e sistematica ebbe ad urtarsi la dittatura; tutt’alpiù, come a Monte San Giacomo, si produssero esplosioni di furore angustiato, conati di ribellione  improvvisa, ma opposizione tenace, riflessa e consapevole questo proprio no; e tranne casi particolari (tanto più eroici quanto più facevano stecca nel coro della generale acquiescenza) il fascio si accomodò da noi così come s’erano sempre accomodati gli altri governi. Verdi, bianchi, rossi, ora pure i neri: per la sensibilità delle moltitudini rurali, indurita da una infinità di patimenti antichi, mutava la casacca ma la sostanza rimaneva la stessa. Sempre di governo centrale si trattava, ossia sempre di quella medesima realtà che anni e anni di pena avevano avvezzato a traguardare con ciglio sospettoso e rassegnato; rassegnato soprattutto. Rassegnato come ci si rassegna alle forze superiori che incombono dall’alto e che bisogna sopportare allo stesso modo delle alluvioni o della siccità. Il che, se da un lato toglie peso alla monumentalità eroica della storiografia “resistenziale” (perché no, assolutamente no: almeno da noi non ci fu alcuna diuturna, indefessa protesta contro il soffocamento di una banda di malfattori), dall’altro lato questa stessa rassegnazione ombra di dubbio anche l’impostazione di certo revisionismo contemporaneo per il quale il Duce fu prima sollevato e poi tenuto in alto da un’ondata calda di consenso attivo e appassionato. 

La quale interpretazione riesce, ad un tempo, falsa (storicamente falsa) e impossibile (logicamente impossibile). È storicamente falsa perché già il semplice buon senso vuole che si distingua tra l’acquiescenza rassegnata e il consenso partecipato; la partecipazione del consenziente è differente dalla rassegnazione dell’acquiescente: chi prorompe con un “sì” squillante non fa lega con chi rincula con un “mah!” paziente, e mescolare le due cose - il “sì” e il “mah!” - è davvero giocare di fantasia con le parole. Non solo. Ma quello che conta di più, perché rende logicamente insostenibile la posizione revisionista, è che in un regime di dittatura è tagliato alla radice il discorso stesso sul consenso. Si dà il caso, infatti, che in punto di principio la misura del consenso è data dalla possibilità del dissenso; che il mio “sì”, insomma, vale come “sì” se e finché ho la possibilità di dire di “no”. Altrimenti che razza di “sì” è?

Pensiamoci un momento: se, all’atto di deporre la scheda nell’urna, indico un partito senza la contestuale possibilità di scegliere un partito alternativo, direste voi che ho liberamente votato? Quale voto potrò mai esprimere quando mi costringono a “scegliere” il candidato unico, che da solo occupa tutto l’arengo politico? Sarà violenza, sarà ricatto, sarà manipolazione, quella scheda sarà tutto, tutto sarà fuorché il prodotto della mia autonoma volontà. E per quanto la frenesia di alcuni storici vorrà tenerla in conto di voto, pure essa rimarrà soltanto l’ombra bugiarda di qualcosa che non c’è (il mio spontaneo consenso, appunto). Allo stesso modo, quando ad un povero diavolo che stenta la vita sui campi dite: “o ubbidisci e ti iscrivi al Fascio, o non mangi né tu né i tuoi figli perché ti caccio in prigione”, dove volete che egli trovi la forza per resistere? Tranne caratteri assolutamente eroici, di quelli sforbiciati proprio dalle pagine di Plutarco, è evidente che in circostanze del genere molti, quasi tutti, avrebbero piegato le ginocchia e abbassato la fronte. Tu che mi leggi, caro lettore, ti saresti condotto diversamente? E però, subito dopo, poniti anche questa domanda: ad uno sguardo retrospettivo avresti detto liberamente voluto quel tuo flettere le gambe e quel tuo curvare la fronte? Porre l’interrogativo, mi pare, è già un poco rispondervi.

Col che si ribadisce (io, almeno, mi sono ribadito) una verità che, insieme a poche altre, ha resistito al consumo degli anni. E che proprio per questo piace portare con sé quando, avanzando il tempo, l’età declina e si avverte, come mai prima, il bisogno di alcuni fondamentalissimi sostegni che non ci lascino incespicare nell’ultimo tratto della nostra strada. Specie poi quando capita di viverli questi tempi ultimi nella babele dei linguaggi e nella confusione delle idee. Ebbene, per quanto mi riguarda, la verità estrema, quella che immagino mi terrà compagnia fino alla fine, sta proprio qui, nella convinzione che la pietra d’appoggio della moderna democrazia riposa sulla possibilità giuridica del dissenso. Eliminatelo il dissenso e avrete la dittatura. Per cui, anche quando tutto si accende di una luce crepuscolare ed incerta, anche quando le persone e le idee si confondono tra loro in ibrido miscuglio, anche allora noi possediamo un criterio sicuro per stabilire la natura del nostro interlocutore: chiediamogli che cosa ne pensa dell’opposizione, di chi rema contro, di chi gli dice di no. Se il dissenso, la contrarietà gli evoca chissà quali catastrofici scenari di rovina, ebbene state pur certi: quello lì è pronto per militare sotto la bandiera dei liberticidi. Ecco: il libro che sto presentando mi ha raddoppiato precisamente in questa convinzione che, davvero, può riempire tutta la vita di un uomo.

È con piacere che ne rendo merito agli autori.

 

Gaetano Pecora

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