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Soprannomi Immagini Magia nella Cultura Ebolitana

Soprannomi Immagini Magia nella Cultura Ebolitana

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Da sempre, l’uomo ha sentito il bisogno di comunicare con gli altri, di mettere, cioè, in comune le proprie sensazioni, le proprie opinioni, le proprie esperienze, i propri sentimenti. Tra le tante forme di comunicazione utilizzate, la parola è quella a cui più di tutte ha affidato il proprio pensiero.

Agevolato dalle nuove tecnologie, ha imparato ad esprimersi in modo sempre più veloce, complesso e multimediale fino a raggiungere livelli altamente idonei alle diverse situazioni.

Perciò, parlare di soprannomi al giorno d’oggi potrebbe sembrare anacronistico, sebbene ancora si verifichi tra gli innamorati e i giovani, in particolari momenti di intimità o con intenti amicali e di coesione sociale, uno scambio affettuoso e a volte gradevolmente ridicolo di qualche nomignolo. A quelli più comuni e forse più scontati, quali Amore e Tesoro, se ne sono aggiunti altri ugualmente carini, ma anche più divertenti, simpatici e originali. Solo per fare qualche esempio: Pannocchia, Topastro, Passerotto, Acciughina, Sciascianiello, Puzzolo, Tarzanetto, Patanella, Gommarola e per i bambini Angioletto, Stellina, Fiore, Puffetto, Gioia, ecc.

Il sistema soprannominale, che senza dubbio era da ascrivere al linguaggio dialettale perché più vivace e più usato nell’ambito familiare e colloquiale, oggi però, soprattutto nei centri più grandi, viene avvertito come un meccanismo sociolinguistico antiquato, arcaico e fuori moda. Eppure, non si può sottacere il fatto che questa specie di “caricatura linguistica” contraddistingue un po’ tutti gli abitanti perché i soprannomi sono sì frammenti e segmenti della storia locale, ma ne sono anche parte integrante perché identificano una persona, indicano e decretano il senso di appartenenza alla comunità e rappresentano una sorta di necessaria utilità a cui si fa ricorso, ad esempio, quando nei quartieri o nei piccoli centri si concentra un numero consistente di abitanti che hanno lo stesso nome e cognome. Perdere questo bene, seppure inficiato da suoni inesatti e da trascrizioni non sempre corrette, comporta una visione parziale del mondo, implica una ristrettezza mentale e chiude le porte ai testimoni del nostro passato, parte vitale e importante del nostro presente.

Per queste ed altre ragioni è doveroso e direi quasi imperativo salvare dalla dispersione questo grande patrimonio culturale e linguistico della memoria collettiva e specifica che attiene ai soprannomi. È un debito che dobbiamo pagare ad una società in continua evoluzione e in cui a signoreggiare è sempre più la cultura dei primi, degli eccellenti, dei famosi, mentre si ignora quella ricchezza che deriva esclusivamente dalla tradizione orale, destinata prima o poi a depauperarsi o addirittura a scomparire, mano a mano che le fonti dirette si fanno più rare e le reminiscenze mnemoniche diventano più inconsistenti e precarie.

L’idea di raccogliere i soprannomi dei miei compaesani mi aveva sempre solleticato finché nell’estate del 1996 con alcuni amici, che regolarmente frequentavano la casa dei miei genitori in vico Torretta (vicino alla chiesa di San Nicola), abbiamo fatto riemergere dalla nostra memoria un congruo numero di soprannomi e abbiamo cercato anche di attribuirli alle rispettive famiglie o ai singoli personaggi.

Alla raccolta avrei voluto dare un’organica sistemazione, ma nel frattempo mi ero dedicata alla compilazione del Vocabolario Ebolitano Italiano che mi ha impegnata per alcuni anni.

L’occasione di realizzare il mio vecchio progetto mi è stata offerta da “Eboli nella Storia” che mi ha proposto di collaborare alla stesura di una pubblicazione sull’argomento e mi ha dato l’impulso necessario, una motivazione in più a offrire il mio modesto contributo.

Poiché il lavoro sui “Soprannomi Ebolitani”, scritto in collaborazione con Paolo Sgroia e pubblicato dal Centro Culturale Studi Storici “Il Saggio” nel luglio del 2012, è stato realizzato in breve tempo per esigenze organizzative, mi sono riproposta di revisionare, correggere, ampliare la precedente raccolta e di arricchire questo nuovo testo di una seconda parte con fatti, racconti ed episodi, appresi soprattutto in famiglia, in cui la magia, la fascinazione, i sortilegi e i personaggi immaginari sono stati, e per certi versi lo sono ancora, protagonisti della nostra storia.

Prima di addentrarmi nella questione relativa ai nostri soprannomi, mi piacerebbe tornare un po’ indietro negli anni e, attraverso un brevissimo excursus, capire per quale motivo l’uomo abbia avvertito l’esigenza di identificare le persone che compongono il gruppo in cui egli stesso vive ed opera.

Partiamo quindi dal presupposto che l’uomo non è un individuo a sé stante, è un essere sociale che vive in comunità (nucleo familiare, amici, compagni di lavoro ed altro) e necessita, in maniera più o meno consapevole, della stessa per esprimere le sue emozioni, i suoi sogni, per soddisfare il suo istinto di socializzazione, per collaborare alla propria crescita, per interagire con l’altro, per conoscerlo e appagare l’innato desiderio di comunicare.

Per questo motivo, ha bisogno di essere indicato, identificato, riconosciuto. Nelle nostre piccole comunità, il Nome serve a distinguere l’individuo entro il sistema familiare o amicale, il Cognome lo classifica a livello amministrativo, scolastico, burocratico e infine il Soprannome serve a cristallizzarlo nel sistema sociale della comunità. Basta un pretesto qualsiasi: una semplice presa in giro, una canzonatura, un difetto fisico, la reiterazione di alcune azioni della persona presa di mira; i modi di fare e di dire; il tipo di lavoro; l’alterazione del linguaggio, la modificazione del cognome e tante altre piccole sfaccettature relative alla persona che si vuole segnalare.

Se l’identificazione -che possiamo chiamare Nome- dei vari componenti del gruppo poteva essere abbastanza semplice in una società ristretta e in ambienti sociali delimitati e circoscritti, essa è divenuta più complessa e più impellente con la crescita e l’incremento della popolazione. Da qui, la necessità di ricorrere a identificativi differenti e diversificati per individuare le peculiari caratteristiche della persona alla quale ci si rivolge. Perciò, quando l’interesse, la curiosità, l’attenzione portano l’uomo a nuove conoscenze, a nuove esperienze e a nuovi contatti, il nome non basta più, per cui diventa indispensabile definire non solo ogni singolo elemento familiare, ma anche ogni gruppo di appartenenza per distinguerlo dagli altri con cui si viene a contatto.

Presso i greci le persone venivano identificate dal nome proprio e, come secondo termine, da quello patronimico (es., Pelide Achille, figlio di Peleo; il Laerziade, Ulisse figlio di Laerte, gli Atrìdi (Agamennone e Menelao, i due figli di Atreo), tutti i cinquanta Priamìdi (i figli di Priamo, re di Troia) o dal paese d’origine (Dionigi di Alicarnasso, storico greco ed insegnante di retorica vissuto durante il principato di Augusto e autore, tra l’altro, della “Storia antica di Roma”; Catone l’Uticense: in quest’ultimo caso, Utica è la città in cui Catone morì suicida quando vide svanire i suoi sogni di libertà repubblicana; ecc…).

Negli ultimi secoli della Repubblica romana l’identificazione risultava più articolata; tre, infatti, erano gli appellativi per identificare e caratterizzare i maschi liberi: Praenomen, Nomen, Cognomen.

Il primo, corrispondeva al nostro nome proprio, attribuito ai bambini alla nascita e con il quale si pensa venissero chiamati in famiglia. Nei documenti scritti, molto spesso il prenomen veniva segnato con la sola iniziale maiuscola, considerato il numero abbastanza esiguo dei nomi propri.

Il secondo (quello che per noi è il cognome) indicava la gens di appartenenza, tra cui si distinguevano le gentes maiores, le più antiche famiglie di Roma, e le gentes minores, più recenti, che rappresentavano e descrivevano i discendenti di famiglie plebee.

Le donne, invece, usavano solo il proprio nome gentilizio e, in caso di omonimia tra due che appartenevano alla stessa gens, si utilizzava l’appellativo di maior e minor se queste erano solo due; se al contrario erano più di due si diceva Prima, Seconda, ecc.

Qualche volta, ma solo quando si voleva precisare meglio la persona, il nome gentilizio era seguito dal genitivo del nome del padre o, dopo il matrimonio, del marito.

L’ultimo elemento, il cognomen, era in origine il soprannome, quell’epiteto che veniva attribuito ad una persona, grazie o per colpa di una particolare caratteristica fisica o per un tratto più o meno rilevante della personalità o per qualche episodio specifico per cui si era distinta.

“La parola soprannome deriva dal latino medievale supernomen che, letteralmente, significa “sopra il nome”, sovrapposto al nome, e corrisponde a quello che volgarmente definiamo “nomignolo”. È un appellativo scherzosamente ironico, a volte cattivo e volgare, ma spesso sa essere incisivo, colorito, estremamente amabile e simpatico” (Bruno Palamara, Locri 29 aprile 2009). Ovviamente, questo attributo non veniva assegnato alla nascita, pur risultando, spesso, l’elemento più caratterizzante per l’individuazione di una persona, tanto che durante la Repubblica e poi dell’Impero esso veniva “ereditato” dal figlio e dalla sua discendenza.

Tipico è l’esempio di Marco Tullio Cicerone, più noto col soprannome Cicer, un’escrescenza carnosa, aperta in mezzo proprio come un cece, che un suo antenato aveva sul naso. “Ob cognomen suum Cicero saepe a quibusdam derisus est, sed irrisoribus dicere solebat: Ita agam ut cognomen praeclarum sit”. Si legge, infatti, nelle “Vite Parallele” di Plutarco che quando Cicerone era in procinto di accedere alle cariche pubbliche, gli fu consigliato di rifiutare quell’appellativo, ma egli, spavaldamente, rispose che da quel momento in poi il nome Cicerone avrebbe assunto una valenza superiore a quella di altri casati, uno per tutti, i Catuli. E non ebbe torto perché con questo soprannome divenne famoso in tutto il mondo.

Con la caduta dell’Impero Romano e le continue invasioni barbariche,  l’abbandono della struttura cognominale latina, il ”tria nomina”, fu quasi totale, ad eccezione di poche famiglie patrizie che trasferirono ai figli primogeniti l’uso dell’identificativo del casato di appartenenza e si ritornò, almeno nell’ambito familiare, al semplice nome ispirato, questa volta, a quello dei santi della tradizione cristiana. Intorno alla fine dell’XI secolo, le influenze delle popolazioni barbariche fecero sì che ai semplici nomi, di origine araba (Riccardo, Teodolinda, ecc.) si aggiungesse, almeno per le famiglie più facoltose, il nome patronimico o matronimico. Tuttavia per arrivare al cognome ereditario trascorse ancora qualche secolo, quando l’aumento dei singoli gruppi familiari, l’allargamento dei confini esplorati, le guerre e il rapporto con popoli diversi resero urgente e improrogabile il bisogno di riconoscere ogni singolo elemento umano della società, tanto che si cercò di “mettere ordine in un campo dove regnava confusione e grande instabilità e anche per evitare possibili matrimoni tra consanguinei, data la mancanza di certezza dei dati personali, che non venivano nemmeno trascritti”. Col Concilio di Trento – 1545-1563 la Chiesa ordinò ai parroci di registrare i neonati battezzati con il loro nome e cognome o con appellativi che sarebbero diventati poi anch’essi dei cognomi. Eppure, mano a mano che questi ultimi si cristallizzavano e si fissavano nei vari registri amministrativi, essi perdevano la loro capacità individuante nella comunità. Infatti, più si avvertiva l’esigenza di creare altri cognomi, più maturava quel senso di piatto anonimato, caratteristico di un grande centro e di una popolazione in crescente aumento. Con l’obbligatorietà delle registrazioni “di battesimo, di matrimonio e poi di morte si istituì di fatto il primo ufficio di stato anagrafico della popolazione” (Bruno Palamara, “Il cognome. Origine, evoluzione, curiosità”  Edizioni Laruffa).

 “Una vera e propria statistica riguardante l’origine dei vari cognomi non esiste, ma si stima che un 35% derivi da nomi propri del padre o del capostipite, un altro 35% abbia relazione con la toponomastica, cioè faccia riferimento a nomi di paesi, località o territori vari, un 15% sia connesso a caratteristiche fisiche del capostipite, un 10% derivi dalla professione o dal mestiere o dall’occupazione o dalla carica mentre un 3% sia di derivazione straniera recente ed un 2% sia un nome augurale che la carità cristiana riservava ai trovatelli” (sito curato da Ettore Rossoni).

Così, anche nel nostro paese abbiamo i Salerno, i Di Napoli, i Pastore, i Caruso, i Nigro, gli Abate, gli Amoroso, i Falcone e così via.

Scorrendo le pagine che raccontano fatti e vicende umane, ci siamo imbattuti spesso in diversi personaggi celebri, noti assai più col loro soprannome che con il loro nome personale.

I soprannomi di questo tipo sono tantissimi, diversi, unici e singolari, sono l’effetto dello sbizzarrimento della fantasia e dell’immaginazione popolare: un difetto, un tic, un atteggiamento, un sentimento di simpatia o antipatia, un ideale sono tutti aspetti o qualità che vengono messi a fuoco e fissati per sempre da un soprannome.

Ne cito solo alcuni: Il Papa Buono, Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli. Famosa la frase: «Cari figlioli, tornando a casa, date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa!”»; Confucio, nato nel 551 a.C. dalla famiglia Kong. Secondo lo storico Sima Qian, poiché alla nascita aveva una protuberanza sulla cima del cranio, gli fu imposto il nome di Qiu, che vuol dire collina. Il nome italiano Confucio gli fu dato, invece, dai primi missionari gesuiti giunti in Cina e deriva da Confutius (o Confucius), forma latinizzante dell’espressione Kong Fuzi, Maestro Kong; Ciro il Grande; Muzio Scevola, il cui vero nome era Caio Muzio Cordoba, fu protagonista, secondo lo storico Tito Livio, di una eroica leggenda romana. Fu detto Scevola, ovvero Mancino, perché aveva bruciato la sua mano destra su un braciere ardente; Appio Claudio Cieco, membro dell’antica gens Claudia. La leggenda racconta che la sua cecità fu originata dall’ira degli dei per la sua idea di unificare il pantheon grecoromano con quello celtico e quello germanico; Carlomagno; Federico Barbarossa; Furio Camillo: presso i romani, il camillus era il chierichetto che assisteva il sacerdote durante le funzioni sacre; in seguito, divenne il cognomen di un ramo della gens Furia, da cui il nostro Furio Camillo; Lorenzo il Magnifico; Ludovico il Moro; Maria I Tudor, regina d’Inghilterra e di Irlanda dal 19 luglio 1553 alla morte, avvenuta nel 1558. Fu detta la Sanguinaria per aver fatto giustiziare almeno trecento oppositori religiosi nel tentativo di ripristinare il cattolicesimo in Inghilterra dopo la Riforma; il Re Sole (Luigi XIV), il pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio, più semplicemente noto come il Caravaggio; Jeanne Antoinette Poisson, meglio nota come Madame de Pompadour, la donna francese più potente del XVIII sec., amante del Re di Francia Luigi XV; Cicco Peppo (Francesco Giuseppe), capo dell’Impero Austro Ungarico; Pipino il Breve; l’imperatore Federico II, stupore del mondo; Vittorio Emanuele III, il re sciaboletta; Verdi, il cigno di Busseto; Gianni Agnelli, più noto come l’Avvocato; Giuliano Amato, chiamato da tutti il dottor Sottile; Romano Prodi, conosciuto come il Professore; Adriano Celentano, detto il Molleggiato e tanti altri personaggi che si sono distinti nei vari ambiti degli accadimenti umani.

Ma come e quando si è formato il soprannome che in area napoletana è il contronome, in altre parti del meridione d’Italia è ‘a ‘ngiuria e a Eboli è semplicemente ‘u scangianome?

Non si può stabilire un tempo né un luogo precisi né tantomeno da chi scaturisce l’idea. A volte, la nascita di un soprannome avviene in maniera molto banale, ci rimanda ad associazioni mentali e linguistiche incomprensibili e, se il ricordo della circostanza in cui il soprannome è nato si è perso nel tempo, diventa impossibile capirne il senso. Per questo motivo, solo le attribuzioni che hanno una chiara corrispondenza nella concretezza e nella quotidianità possono essere comprese e definite. Altre volte nasce proprio nell’ambito familiare, per puro divertimento o per benevola presa in giro e sono i soprannomi ad personam, cioè specifici di un singolo individuo, ragion per cui non sono trasmettibili o perché spariti con i personaggi che non hanno lasciato eredi, oppure perché gli eventuali figli ne hanno assunto un altro più rappresentativo o perché l’elemento qualificante per il quale gli è stato attribuito l’appellativo è proprio di quella persona e non di altri.

Fatto importante è che sempre o quasi sempre ‘u scangianome “supera” il proprio nome personale, passa cioè avanti al nome e, in breve scivola di bocca in bocca assumendo, come già più volte si è detto, valenza e interesse anche quando sottolinea difetti, imperfezioni, inadeguatezze.

Mariano Fresta, studioso di folklore e di etnologia, nel saggio “Il soprannome: dalla qualificazione alla ‘ngiuria” così si esprime: “Il soprannome ha, quindi, la capacità di individuare e rappresentare una persona distinguendola da tutte le altre, attribuendole oltre ad un carattere, una psicologia, una cultura, una posizione socioeconomica, un aspetto fisico specifico, anche una vicenda umana particolare”. Ma, più avanti, spiega come la realtà sociale, economica e culturale degli ultimi quarant’anni abbia modificato questo stato di cose: “la scolarizzazione di massa, la burocratizzazione della vita sociale (patente di guida, certificazioni e licenze varie, codice fiscale, ecc.) hanno segnato, presso le generazioni più giovani e acculturate, la supremazia del cognome sul soprannome”. Infatti, sempre più spesso, oggi ci si avvale di nomi originati da personaggi europei o americani del mondo dello spettacolo, dello sport o del cinema, mentre i vecchi scangianomi erano più resistenti all’usura e al cedimento del tempo. Una volta, i nomi riprendevano quelli già presenti nelle famiglie, si usava “suppontare” il nonno, il padre o gli altri parenti per cui le numerose omonimie generavano spesso confusione nell’individuazione delle persone. Ed ecco allora la necessità di un codice che identificasse e qualificasse la persona in modo inconfondibile.

In questo lavoro i diversi soprannomi sono stati catalogati, fin dove è stato possibile, per categorie tematiche. Ecco le principali:

a.    mestieri 

b.    aspetto, qualità e difetti fisici 

c.    nomi di frutta e verdura, alimenti in genere 

d.    luogo di origine

e.    animali

f.     modi di dire 

g.    origine religiosa

h.    nomi un po’ volgari

i.     nomi vari

j.     nomi di cui non è ben chiara l’attribuzione

k.    Personaggi

Nella vasta gamma delle categorie tematiche troviamo anche soprannomi che nascono dall’ascolto del linguaggio e dal modo di esprimersi del soprannominato, ad esempio con la ripetizione di espressioni onomatopeiche oppure con balbuzie oppure parole o voci storpiate o sintagmi ripetuti (lamenti, saluti, esclamazioni, versi, modi di dire). Essi schematizzano e compendiano “la varietà linguistica usata dalla comunità che li adopera, e quindi la gran parte dei soprannomi presenta i tratti grafico-fonetici, morfologici, lessicali e semantici propri dei dialetti dell’area in cui vengono adoperati” (Giuseppe Cavarra, nato a Limina (Me) si è occupato dei dialetti e della cultura che ne è espressione sin dai tempi dell’università).

Ma anche il soprannome muta, si modifica e spesso va di pari passo con l’evolversi della lingua, con le sue trasformazioni lessicali, le sovrapposizioni linguistiche, i prestiti e le contaminazioni. 

Per le spiegazioni, non sempre minuziose e precise, si è fatto riferimento soprattutto alla tradizione orale, ma anche al significato letterale più logico ed evidente.

Dopo una breve disamina dei soprannomi ebolitani -già oggetto di ricerca pubblicata nel testo “Soprannomi Ebolitani, di Rosalia D’Ambrosio e Paolo Sgroia, edito da Centro Culturale Studi Storici “Il Saggio”, luglio 2012 e qui ampliata e rivisitata- ho voluto, come dicevo prima, delineare e introdurre quei personaggi fantastici che hanno incuriosito, spaventato ed appassionato tanti fanciulli, quando la sera dinanzi al camino i nostri nonni o i nostri genitori ci raccontavano storielle di spiriti, di credenze irrazionali, di superstizioni, di fatti fantastici che colpiscono ancora oggi l’immaginario collettivo. Noi ragazzi, ben disposti a fantasticare, a inventare, a immaginare, rappresentavamo il terreno fertile a nutrirci dei fatti raccontati, eravamo psicologicamente vulnerabili, indifesi e fragili: bastava che il narratore esercitasse su di noi un certo fascino, fosse un bravo affabulatore, capace di suscitare suspense e infondere completa fiducia che eravamo pronti a credere in tutto ed anche ad aver paura di tutto. Raccontare queste storie rappresentava forse la paura del mistero; forse, era il sentimento di profonda tristezza che comunque e dovunque pervade l’uomo; inconsciamente, forse, era semplicemente un modo “didattico” per farlo ravvedere o per non fargli commettere azioni malvagie. 

In ogni civiltà vi è una ricca produzione di cunti e fattarielle in cui appaiono anime in pena che implorano preghiere; anime scellerate pronte a far del male agli altri; uomini e donne che subiscono trasformazioni nel fisico; affatturamiente, jettature e maluocchio che danno chiara la percezione del passaggio dalla cultura religiosa pagana a quella cristiana; del connubio, a volte abbastanza palese, delle due culture, ma soprattutto denunciano e testimoniano il bisogno intrinseco in ogni uomo di spiritualità e di magia.

Come per i soprannomi, questo enorme patrimonio culturale e linguistico rischiava l’estinzione per cui, riportare alla luce lingua, leggende, tradizioni, usi, abitudini, modi di dire sepolti sotto un cumulo di polvere, accogliere la cultura dominante, senza da essa farsi sopraffare, era ed è un’esigenza nonché una necessità per tutti noi. 

Mahare, Janare, Pumpunare, Scorzamaurielle, Fantàseme, Pupatelle, Marialonga e spiritelli vari hanno popolato il mondo dei nostri antenati e la fanciullezza dei ragazzi di qualche generazione addietro. E allora, perché non dissotterrare dalla polvere del tempo anche questo aspetto immaginario e magico, rappresentativo del sapere della nostra terra?

Per questa operazione e per gli aneddoti relativi ad alcuni personaggi ebolitani e a quelli fantastici, mi sono avvalsa principalmente dei racconti di mia madre, dei miei zii, di mio fratello il maestro di musica Carmine D’Ambrosio, di testi sull’argomento, alcuni dei quali erano stati già consultati per la realizzazione del libro “Quartu ed Eboli, due terre simili storie” dell’anno scolastico 1999-2000.

 

Rosalia D’Ambrosio

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